La Collegiata

ANTICA CHIESA COLLEGIATA.

Le origini della chiesa collegiata di Santa Maria Maggiore risalgono al XII secolo. La futura Collegiata fu costruita, su una chiesetta già esistente, in onore di San Giacomo e di Santa Maria della Sanità.
Intorno ad essa si sviluppò il borgo medievale del Casamale che si chiuse intorno alle sua mura aragonesi.
Sul finire del ‘500 la comunità di Somma Vesuviana ebbe da Papa Clemente la concessione di erigere una chiesa
di secolare capitolo collegiale e così divenne Collegiata.

L’ARCHIVIO ECCLESIASTICO DELLA COLLEGIATA

In una nota di Fasti di Somma, pubblicato quasi dieci anni fa, leggemmo con vero disappunto che dell’intero archivio della Collegiata era rimasta ben poca cosa.
E fu con meraviglia che, nell’agosto del 1977 su sollecitazione del rev. Armando Giuliano, in un armadio della sagrestia durante una delle solite visite alla chiesa, constatammo l’esistenza di un’enorme messe di documenti.
Nello stesso mese procedemmo ad una sommaria lettura e ad un parziale riordinamento, con la sistemazione degli stessi in un ambiente più idoneo alle spalle della sagrestia. Alla stessa epoca risale il catalogo che, dal breve esame dei testi, risultò opera incompleta perché della gran parte degli atti riportammo solo l’anno o il firmatario.
Tornando alla presunta scomparsa o menomazione dell’archivio, pur segnalando un effettivo incendio nei decenni passati, ricordiamo che l’equivoco è stato generato in gran parte dalla mancanza della bolla di erezione della chiesa in Collegiata, che è stato tradizionalmente considerato il documento più rappresentativo.
Ci riferiamo alla bolla di concessione del 1595 con la quale Clemente VIII delegava Fabrizio Gallo, vescovo di Nola, per l’erezione del beneficio della Collegiata nella regia città di Somma. Nel 1600 lo stesso vescovo da Roma istituiva il beneficio della Collegiata nella chiesa di S. Maria della Sanità, già degli Eremitani di S. Agostino, cambiando il titolo in S. Maria Maggiore o della Neve.
Sebbene del documento papale A. Angrisani nel 1928 riferiva che esso era nella chiesa, mentre C. Greco, in tempi a noi più vicini, riporta che la bolla è scomparsa, ricordiamo che alcune copie sono rintracciabili presso l’archivio diocesano di Nola.
L’attuale riordino dell’archivio ha aggiunto ulteriori dati al problema; infatti in una memoria ottocentesca di anonimo, sui retroscena e sulle liti della istituzione della Collegiata, si ricorda che nella controversia insorta tra la curia ed il re nel 1789, tra i documenti presentati dai canonici mancava la bolla di erezione.
La mancanza di questo documento comunque non inficia la poderosa raccolta documentaria dell’archivio.
Si tratta infatti di circa 5000 atti che vanno dal 1492 al secolo novecentesco, anche oltre l’estinzione dell’ente morale della Collegiata che data al 1861 (art. 2 del decreto promulgato nelle province napoletane)
I documenti riscontrati possono essere schematicamente suddivisi in:
⦁ Atti notarili di donazioni alla chiesa.
⦁ Ricevute di censi annui, documenti inerenti censi riservativi o donazioni.
⦁ Ricevute da matrimoni.
⦁ Corrispondenza tra la curia nolana ed i canonici del capitolo.
⦁ Atti inerenti controversie tra beneficiari comuni di donazioni.
⦁ Atti inerenti controversi tra il capitolo e [‘Università di Somma.
⦁ Controversie tra i canonici, il capitolo e la curia nolana.
⦁ Decreti e missive papali.
⦁ Atti inerenti le confraternite (SS. Corpo di Cristo, della Neve e del Pio e Laical Monte di Morte e Pietà).Archivio della famiglia
Ci troviamo quindi davanti ad un vero tesoro documentario, già riordinato all’inizio del 1800. Infatti molti documenti riportano un’annotazione sbiadita sul retro che prova un accurato studio dell’archivio precedente all’incendio novecentesco che confuse tutta la raccolta.
Una importante constatazione è la rarità di documenti coevi o anteriori al 1500.
Quando nel 1599 fu istituita la Collegiata, gli Eremitani di S. Agostino che per secoli vi si erano insediati, nel lasciare la chiesa molto verosimilmente portarono via tutte le documentazioni precedenti esistenti, ritenendole legate alla storia del proprio ordine.

Collegiata – Abside

Abbiamo inoltre notato che gran parte dei documenti cinquecenteschi sono relativi alla famiglia Casillo, è ipotizzabile che si tratti di un plico originariamente unitario e smembrato nei secoli e confluito nell’archivio dopo il 1679, anno in cui Tommaso Casillo legò il suo patrimonio alla chiesa, ancora più interessante, di valore praticamente incommensurabile, è il libretto in pelle, diario di quel famoso d. Tommaso, che fece eseguire il soffitto in legno dorato, devolvendo il suo immenso patrimonio terriero dell’ Ammendolara.
Il diario è intitolato “Libro di memoria di me D. Thomase Casillo 1631” e vi sono menzionate tutte le spese e le entrate dal 1631 al 21 agosto del 1641. Utile, oltre che per il suo valore storico/documentario, per il
suo valore marxiano economico essendo deducibili tutte le conseguenze sociali seguite al cataclisma del 1631.
Sempre inerente la famiglia Casillo è un documento che testimonia della nobiltà titolata della famiglia nella persona di Vincenzo Casillo.
ln uno degli atti del cinquecento è poi descritto il palazzo dei Casillo alle spalle della chiesa, la piazzetta che nel medioevo era detta Largo S. Giovanni, ancora oggi proprietà degli eredi di d. Carolina Casillo recentemente scomparsa; ricca di documenti si è dimostrata la raccolta per quanto riguarda le liti sulle rendite per il capitolo.
Ebbene mai rendite furono così controverse ed insicure di questi 800 scudi. Alle proteste del Commissario della Università sulla gravosità dei 300 scudi e per la pressione del duca di Sessa, il cardinale Paleotti, il 17 agosto 1596, consigliava di ridimensionarli a 150. Per quanto riguarda le rendite dovute dalla chiesa di Madonna dell’Arco, la lite fu così lunga, controversa e spinosa che solo al 31 marzo del 1561 si arrivò ad un primo appianamento della questione.
Tra i documenti eccezionali ricordiamo una lettera del nobile Marco Antonio Capograsso del 16 ottobre 1600, riguardante la chiesa inferiore di S. Maria del Pozzo. La chiesa interrata, sotto il titolo di S. Maria della Corona, era di padronato dei Capograsso ed il rettore era D. Bartolomeo, familiare di Marco Antonio e preposito della Collegiata. Questo documento è illuminante perché segue alla rinuncia del beneficio dei francescani del 15 luglio 1600 ed è di poco posteriore all’istrumento stilato in Roma il 19 settembre, con il quale il beneficio passava ai Capograsso.
Traspare quindi dalla raccolta della Collegiata la storia delle famiglie nobili, il loro peso e la loro prepotenza storica nel determinismo degli avvenimenti che costituiscono la storia della cittadina.
Questi dati però, scontati o perlomeno già conosciuti, sono secondari rispetto all’analisi dell’evoluzione delle forze borghesi emergenti, è infatti possibile scoprire e documentare per esempio, l’ascesa della famiglia Angrisani dal livello imprenditoriale del ‘700 a quello di alta borghesia dell’ ‘800. Così pure quella degli Aliperta che da trasportatori e commercianti di materiali edili del 1781 diventarono sacerdoti e infine all’apice, nello stesso capitolo della Collegiata, insieme a queste famiglie, di ieri notabili come tante altre non meno importanti, è documentabile l’esistenza di quelle che la storia l’hanno fatta materialmente con le loro mani e con il proprio sudore. Ricevute ingiunzioni di pagamento, contratti di matrimoni e controversie giuridiche che illustrano nei termini economici quella componente essenziale dell’analisi storica, l’evoluzione della nostra comunità dal 1500 al 1900, infatti, è proprio questa storia minore di famiglie non nobili, alla luce delle ormai non più recenti, ma per noi sempre interessanti correnti storiografiche legata nella persona del canonico Camillo Aliperta francesi, che affondano le radici negli Annali di Lucien Fevre e Marc Bloc dai quali è possibile studiare l’enorme archivio della Collegiata.
L’analisi della storia di Somma, rivista sotto questo aspetto di rivoluzione documentaria potrebbe dare risultati praticamente inimmaginabili, ed è tempo che essa venga descritta non più come sterile panegirico, ma in termini strettamente scientifici, e quindi economici, agganciandola alla storia di Napoli, cui è intimamente legata, per farla uscire dagli angusti limiti del provincialismo.

La grande guerra è finita. Anche Somma, come tutti i comuni italiani, si appresta ad onorare i propri caduti.
Nel 1922 viene stampato un libretto che rievoca le principali glorie ed illustra i più importanti monumenti della cittadina. L’opera, il cui autore è Ciro Romano, viene distribuita ai sommesi previo un’offerta da destinarsi alla costruzione del monumento ai caduti.
Con lo stesso intento viene distribuito ai sommesi emigrati in America questa volta il contributo deve essere superiore a 5 dollari il libro della storia di Somma, elaborato da Alberto Angrisani e stampato nel 1928.
Ed è proprio in quest’anno che l’alto Commissario per Napoli invita il podestà di Somma, dott. Alberto Angrisani, ad adottare una delibera per iniziare il monumento ai caduti. Fu subito costituito un comitato presieduto dallo stesso podestà, che diede l’incarico all’architetto Wladimiro Del Giudice di redigere il progetto.
Nella previsione il monumento era composto di due parti: la base, a forma di cappella votiva chiusa, e la parte alta, a forma piramidale, tipo obelisco.
La massiccia base poggiava su un forte zoccolo in pietrarsa grezza, poi una larga fascia in pietrarsa bugiardata, chiusa sopra e sotto da un robusto listello in travertino squadrato. Nella parte frontale erano inserite verticalmente tre lastre in marmo chiaro su cui era riprodotto, inciso, il bollettino della vittoria del gen. Diaz.
Il tutto era sommontato da un timpano in pietrarsa scura bugiardata, sporgente su due gradoni rientranti, e su questo dovevasi innalzare (secondo il progetto originario) una piramide molto alta formata da “opus incertum”.
L’opera di intaglio della pietra era affidata al maestro Eugenio Santomartino.
Il monumento restò fermo alla base per diverso tempo per una vertenza tra il podestà Angrisani, l’arch. Del Giudice e la ditta appaltatrice, Citarella di Nocera, da cui provenivano i blocchi di pietra.
Il 30 giugno 1935, con l’intervento di S.A.R. il Principe di Piemonte, Somma Vesuviana inaugurò il monumento ai suoi 165 cittadini caduti nella grande guerra.
L’opera fu conclusa con l’intervento dell’arch. Marcello Canino, che scartò le pietre della ditta Citarella e rivestì l’obelisco di squadrate lastre di liscio travertino di Bellona (Capua), ordinate dal Commissario Prefettizio di Somma, ingegnere Ugo Rosa nel dicembre 1933.

La cappella di S. Nicola Vescovo di Mira

La 1a cappella a destra di chi entra nella chiesa Collegiata di Somma è dedicata a S. Nicola, vescovo di Mira. Sotto questo titolo è riportata nel lavoro inedito di Pietro De Felice, canonico della stessa chiesa, che non precisa la storia antecedente a tale dedicazione.
È verosimile che la cappella fosse sempre dedicata alla Madonna come Immacolata Concezione.
Essa presenta una decorazione a stucchi tardo-barocchi con l’altare sovrastato da una nicchia recentemente ricavata dal posto dove era allocata la tela principale trafugata negli anni passati.
Attualmente lo spazio ospita una comune statua dell’Immacolata Concezione.
Sulla parete sinistra della cappella vi è una lapide che illustra le vicende dell’instaurazione del culto del santo, il marmo, del 1747, riporta il nome di Aurelia Viola, moglie del patrizio fiorentino Nozzoli, che in quell’anno ornò a sue spese la cappella di tutti gli arredi sacri dedicandola a S. Nicola, protettore della sua stirpe.
Sebbene la lapide sia sormontata da uno stemma ducale, prova chiara della nobiltà dei Nozzoli, un approfondito esame dei testi principali sulla storia del Regno di Napoli non ci ha rivelato alcun dato.
Ben diversa è la situazione dei Viola in Somma, il loro nome, infatti, compare in diversi atti dell’archivio della Collegiata. Essi sono inoltre citati tra le famiglie notabili nella storia di Somma del 1703 del Maione.
Sebbene Aurelia Viola sia dichiarata nel testo napoletana, è molto probabile che essa sia d’origine sommese, cosa che giustificherebbe la sua predilezione per la Collegiata e per la cappella restaurata e dotata.
Nell’ambito dei “restauri” della Collegiata furono asportati e frammentate varie lapidi, che successivamente furono sistemate alcuni anni or sono, nella cripta della Confraternita di S. Maria della Neve. Tra esse due riguardano la famiglia Nozzoli-Viola. La prima, datata 1748, sembra essere collegata alla dedica della cappella perché nel frammento si leggono chiaramente le parole “fece” e “dedicò”; la seconda, molto più grande, è mutila delle ultime righe per cui non si legge la data, inoltre una striscia verticale del lato sinistro non è ben leggibile per una impropria lucidatura. Dalla lettura della lapide si evince che la nostra Aurelia Viola morì all’età di 39 anni, per la qual cosa si deduce che essa sia riportabile ai primi anni della seconda metà del XVIII secolo.
La cappella originariamente, oltre a queste tre lapidi, era dotata di tre tele, due laterali ed una principale sull’altare, purtroppo il quadro d’altare fu asportato dai soliti ignoti il lunedì notte del 17 febbraio 1975.
La tela raffigurava l’Immacolata Concezione attorniata da angeli reggisimboli (speculum sine macula et rosa mystica) e con un santo ai suoi piedi. Benché nell’inventario della chiesa e nel testo citato, essa sia riportata come dedicata alla Madonna, senza alcuna precisazione per la figura ai piedi della Vergine, la nostra opinione è che si tratti chiaramente di S. Nicola, lo stesso santo rappresentato nelle due tele laterali.
Lo deduciamo da alcuni dati iconografici che riportiamo. Oltre alla logica unicità dei soggetti di una cappella dedicata ad un santo specifico, ci ha convinto la croce a doppia traversa che l’angelo gli porge. E non si tratta di un particolare insignificante, ma di un dato distintivo fondamentale. Si consideri per esempio che S. Gregorio Magno è rappresentato invece con una croce a tre traverse, inoltre il santo della nostra tela presenta il libro degli evangeli tra le mani confermando la nostra opinione.
S. Nicola di Mira visse nel IV secolo, partecipò al concilio di Nicea ed il suo culto s’irradiò da Bari a tutto l’occidente, dopo che le sue spoglie furono trafugate e trasportate in quella città da alcuni mercanti baresi. Per il passato è stato uno dei santi più popolari della cristianità sebbene non fosse stato un taumaturgo od un martire. I suoi miracoli riguardano la dotazione di tre vergini, sottratte alla prostituzione, atto che lo rese santo dei regali; la resurrezione di tre bambini uccisi e la sedazione di una tempesta durante un pellegrinaggio.
Collegando questi eventi, il santo divenne protettore dei bambini, dei doni di Natale, dei chierichetti, delle ragazze da maritare, dei marinai, dei mercanti di vino e di grano, dei bottiglieri, degli speziali e dei droghieri.
Inoltre il suo sarcofago a Bari produrrebbe una mirra profumata e benefica che lo rese anche il santo dei profumieri, era ancora il protettore degli avvocati, dei prigionieri e delle vittime degli errori giudiziari, perché evitò la morte di tre condannati ingiustamente apparendo in sogno all’imperatore Costantino.
Le tele superstiti della cappella sono iconograficamente molto particolari. Sulla parete destra è raffigurato il santo che riceve dagli angeli il bastone pastorale e la mitra. L’evento si riferisce al fatto che durante il concilio di Nicea il santo aggredì con tanta veemenza l’eretico Ario che i presenti gli tolsero le insegne episcopali, ma poi Gesù e la Madonna gliele restituirono. La, particolarità del quadro consiste nel fatto che gli sono riconsegnati dagli angeli.
Ben più interessante è la tela della parete sinistra che raffigura il santo che sovrasta due bambini ed un giovane. Qui verosimilmente potrebbe esservi un legame con la famiglia Nozzoli-Viola. Infatti la mancanza di un bambino — dovrebbero essere tre — ci permette di ipotizzare che possa trattarsi di un evento miracoloso per la famiglia, che per riconoscenza dedicò la cappella al santo.
Si spiegherebbe così l’appellativo riportato sulla lapide di potente patrono della gente sfortunata. Si tratta di un’ipotesi da verificare dato il cattivo stato della tela – opacissima – che potrebbe nascondere sotto la vernice nera un terzo bambino, o potrebbe essere un altro miracolo del santo, a noi ignoto, ma il fatto che la stessa tela è posta proprio al di sopra della lapide dedicatoria ci induce a pensare ad un rapporto diretto con i Viola.
La cappella era dotata dai Nozzoli di tre ducati annui e da un legato di altri sei per le messe da tenervisi.
Il riordino dell’ archivietto della Congrega della Neve ci ha permesso di conoscere altri dati economici sulla cappella.
La cappella era gestita da un canonico procuratore dal 1 0 agosto al 31 luglio dell’anno successivo. Le spese servivano alla ordinaria manutenzione, agli arredi, alla cera per le candele e all’abbellimento della cappella che si metteva in atto il 6 dicembre, giorno di S. Nicola.
Il bilancio era controllato dai canonici visori della Collegiata e quasi mai era chiuso in parità. Infatti nel settennato dal 1 0 agosto 1801 al 31 luglio 1807, curato dal canonico Antonio Cioffi, le uscite superarono le entrate di 1 1 carlini, due grane ed un tornese. Ed i revisori dei conti ordinarono al successore di anticipare al Cioffi la differenza sottraendola all’entrata dell’anno successivo.
I conti terminano nel 1823 e sono interessanti anche perché riportano pure le spese del calesse per il viaggio a Napoli alla casa dei Nozzoli, cosa che ci induce a pensare ad una gestione molto travagliata.
Lo studio di questa cappella ci ha portato a constatare lo stato di avanzato degrado delle tele della chiesa Collegiata, ed è auspicabile che, nell’ambito di un restauro organico, esse vengano recuperate e riportate alla loro bellezza originaria.
Ricordiamo con amarezza la visita dell’attuale Soprintendente Spinosa nel lontano 1973 e la sua meraviglia di fronte alle bellezze artistiche della chiesa. Purtroppo a 15 anni da quella ispezione non è stato fatto un solo passo avanti. 

 

LE ACQUASANTIERE A CONCHIGLIA

Questo particolare arredo sacro, oltre ad essere ogget­to di culto, altresì è un significante ed interessante docu­mento di storia artistica di quel clima culturale che, dal Sei­cento al Settecento, ha interessato significativamente I’ im­maginario popolare del territorio vesuviano.
Pertanto, così come per ogni tipo di suppelletti le sa­cra delle chiese di Somma Vesuviana. La lettura non caratterizzava anche la coeva architettura locale, proprio della nuova Weltanschauung maturata a Napoli e nel napoletano nei secoli XVII e XVIII.
A Somma, nello specifico di quest’aura culturale, sono da ravvisare le tre coppie di acquasantiere delle rispettive chiese di S. Maria del Pozzo, del Bambino Gesù e della Collegiata.
La particolare comunicazione estetica espressa da que­ste tre acquasantiere è riferibile all’ ambito culturale di ma­estranze napoletane, consistente in un bagaglio formale di “maniera”, che interagisce con di versi e nuovi rapporti lin­guistici del barocco e rococò.
Queste maestranze, citate come anonimo napoletano dal le schede della Sovrintendenza, nella impossibilità di po­tersi esprimere liberamente in città, ormai dominata dalla presenza di accreditati maestri di stile, trovarono soltanto in provincia una più spregiudicata libertà d’ espressione.
Anzitutto, per una lettura storica, più mirata, bisogna risalire ad uno specifico prototipo, ovvero la notissima ac­quasantiera della chiesa del Pio Monte della Misericordia di Napoli.
La prima delle tre, l’ acquasantiera di S. Maria del Poz­zo, datata al XVII secolo, invece può essere definita arcai­ca, in quanto, nel la sua essenzialità strutturale, è composta da un’unica vasca stilizzata a forma di conchiglia, appena fissata al muro, rispecchiando spiritualità francescana, se­condo l’ intento della committenza.
D’ altronde gli aspetti formali di questa specifica tipologia sono maggiormente pronunciati nelle acquasan­tiere della chiesa del Bambin Gesù, più comunemente indi­cata come chiesa dei PP. Trinitari.
L’ archetipo conchiglia, usato come immagine simbo­lica della vasca dell ‘acqua benedetta, è ricorrente in tante altre acquasantiere dell’ area vesuviana con tante di verse va­riazioni formali .
Nell’ insieme il dossale e la vasca interagiscono in una sola immagine simbolica di mollusco dal guscio aperto.
Sono citazioni iconografiche barocche, di schietto ambi­to fanzaghiano, e fanno riferimento al prototipo priman citato.
SimiImente nell’ acquasantiera del Bambin Gesù si rav­visa la stessa fantastica conchiglia a valve aperte ,  la psicologia del profondo, con una ricercata impostazione di percorso percettivo, tipicamente barocco.
La forma di conchiglia appena è data figurativamente da una parte dalla voluminosa vasca e dall’ altra dalla proiezio­ne della stessa immagine sul piano verticale del dossale.
Attraverso questo sofisticato meccanismo visivo si perviene alla rappresentazione di un concetto archetipale di fecondi  alla determinata metafora di forma uterina.
A Somma, nell’ ambito di questo processo culturale, l’ acquasantiera della Collegiata è la più emblematica: bel lavoro d ‘artigianato napoletano, databile verso gli ulti­mi lustri del Settecento , così definita dalla scheda della Sovrintendenza alle GalIerie della Campania – Napoli.
Se non è azzardato stabilire un rimando tipologico ad un raffinato ambito formale, vicino ad Antonio Domenico Vaccaro. è da aggiungere soltanto che trattasi di un indubbio modello ricorrente nella capitale.
Questa distinzione non è determinata da un criterio di monumentalità, dovuto alle dimensioni maggiori rispetto a tutte le altre acquasantiere esistenti a Somma, ma per una tipologia inusitata nel territorio.
Uno stemma cardinalizio è ostentalo sul dossale, pro­prio in asse alla vasca, denotando che quest’ opera è un mu­nilico dono di un’ autorità ecclesiastica.
Il linguaggio visivo, a tal fine, impiega un lessico araldico altisonante attraverso le figure del grifone e del rastrello.
Il grifone ( mitico animale alato, con testa d’ uccello e corpo di quadrupede) allude al concetto del dominio e della buona custodia e in tal senso rappresenta la vigilanza, la salvaguardia e la fedeltà.
E il rastrello a tre piedi (impropriamente indicato, sul­la scheda, come ponte) è, in ogni modo, una velata allusio­ne ad un consueto arnese agricolo, divenendo metafora dal nobile ruolo di anime discernite.
Del resto il simbolo araldico del rastrello riveste una grande importanza storica e consiste in un’ aggiunta onorifi­ca alle arme di alcune famiglie napoletane, una concessione data per gratitudine dai serenissimi Re Aragonesi in contrassegno della loro gratitudine alla bengrade ed esimia fedeltà.
Insomma, a riguardo di quest’ acquasantiera, ci trovia­mo al cospetto di un bell’ esempio d’ arte barocca e in tal senso si spiega il fasto del coronamento dell’ intera opera: il motivo di una mitra, quale tipica insegna del prestigio episcopale, è inteso come una sona di sontuosa “forma aperta” dilatata nello spazio.
L’ annotazione per opere trafugate è, a nostro malgrado, ri­corrente per il patrimonio sommese di beni culturali e le opere di questo studio, ad eccezione di quelle della Collegiata, sono state tutte barbaramente asportate dai la­dri.
Circa quest’ avvilente situazione riteniamo almeno far affido in un giusto e rassicurante proposito che ci proviene dalle Autorità: . . . esprimiamo la speranza che in una ini­ziativa successiva e affine si realizzi la possibilità di illu­strare con maggiore ampiezza quanto delle nostre opere d ‘arte danneggiate o trafugate, e quindi quanto della nostra “memoria storica” sia stato nel tempo violentato, annullato e negato, è stato possibile recuperare e restitu­ire, ancor più che ai legittimi proprietari pubblici o pri­vati, alla nostra identità culturale.

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